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Quarantena: la tempesta perfetta

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Chi l’avrebbe mai detto che questa quarantena mi avrebbe riportata a prendermi cura del mio sito?

Eppure, questa clausura forzata mi ha fatto tornare la voglia di scrivere quella che si era lasciata sopraffare dalla preferenza per video e immagini, molto più veloci e immediate, su Instagram.

Poi invece è arrivata la tempesta, con un nome incomprensibile COVID19, un uragano improvviso che ci ha travolti ribaltando priorità e desideri, bisogni e necessità. E alle immagini ho avuto bisogno di associare parole, più lente e pensate, più significanti di un flash di pixel che prova a corteggiare gli occhi per farsi guadare.

Quelle parole che ogni sera ho messo su un diario virtuale, scrivendo  missive a te, mio piccolo eroe costretto a questa reclusione forzata. Tu figlio mio, prigioniero inconsapevole, paghi lo scotto più forte della quarantena. Tu sai del virus e della malattia, comprendi il divieto, accetti la lontananza dai tuoi amici e dai tuoi nonni, ma non capisci perché non so dirti quando finirà.

 I veri colpevoli di questa prigionia però siamo noi, noi che eravamo pronti a lasciarvi un mondo malato e consumato e che importa.

Noi che ora siamo carcerieri impreparati e maldestri che non sanno nemmeno tener testa a orari stabiliti per un pranzo o una cena. Non sappiamo regolarci in questa quiete imposta.

Siamo stati travolti come tutti dalla lentezza, incapaci di assuefarci a ritmi sconosciuti che impongono riflessione e stand by, fermi immagine e di parole. Noi che siamo diventati isterici per mancanza d’aria supposta, noi che non capiamo la mancanza d’aria reale, quella di chi invece da questo male è stato colpito. Come la terra che, in agonia, ha lanciato il suo SOS.

Noi ora siamo in casa  a guardare il cielo  dalla finestra e vorremmo essere là fuori. Noi che quando siamo là fuori, camminiamo a testa bassa dimenticando il cielo.

Noi che ci siamo sempre lamentati di non aver tempo per noi e che ora, di noi, non sappiamo prenderci cura. 

Noi che in queste ore dilatate urliamo, ci arrabbiamo, piangiamo, ci annoiamo proprio come te,  piccolo innocente costretto alla convivenza coi tuoi aguzzini.
Noi che non sappiamo dare risposte ai tuoi interrogativi ingenui perché, proprio come te, non sappiamo cosa fare e nascondiamo con l’arroganza della maturità, la disperazione della paura. 

Che ne sarà di noi? Di noi tre intendo, che ci scontriamo alla ricerca di un equilibrio  in bilico sui sentimenti e le emozioni in questi spazi angusti, mentre aspettiamo di tornare a essere liberi là fuori, completi ognuno in sé e perfettamente in tre?

Intanto marzo se ne è andato, invisibile.

Che strano dover girare la pagina del calendario senza essersene nemmeno resi conto.
C’è stato come un buco nero che ha inglobato i giorni, le ore e i minuti. Cosa abbiamo fatto? Sono passati 31 giorni, 31 interminabili giorni chiusi tra 4 mura, e non so come.
Come quando al Grande Fratello chiamano il FREEZEE, siamo rimasti tutti impalati ad osservare la vita che scorreva fuori, siamo rimasti in casa nell’attesa, raggelati dalla paura di questo nemico invisibile che ci ha assediati e spaventati.

Là fuori la tempesta, e dentro un uragano.

Il tuono, prima, il rumore di un ‘imposizione: “Dovete restare a casa” che risuonava incomprensibile, poi i lampi, quelli che rischiarano a tratti le nubi sotto forma di piccole concessioni luminose: “potete uscire ma non troppo, insieme ma senza assembramenti, lo jogging sì, ma non ovunque, i bambini e i cani no al parco ma solo sul marciapiede.
Bagliori nel buio, che non fanno mai presagire nulla di buono.
E poi sono arrivati i fulmini quando credevamo di essere al sicuro: quelle saette che ti percorrono la schiena, quelle cifre che come stilettate ti ricordano ogni sera la caducità della vita capaci di infiammare, uccidere, dissolvere ogni cosa.

La tempesta nel silenzio dell’isolamento ha fatto tanto rumore, il rumore di tutti i pensieri tristi che, con un tonfo sordo, sono piombati  sul cuore. Siamo rimasti a osservare il mondo da dentro, fuori. E la nostra anima da fuori, dentro. Quell’anima pavida, incapace di reagire a un nemico che non vede annichilita dall’incertezza.

E intanto i giorni sono volati.
Ora, al desiderio di uscire e contravvenire alle imposizioni, si è mescolato un altro sentimento indecifrabile:  il terrore che chiunque possa infettarci, che qualsiasi cosa si tocchi, possa fare male.
L’animo sociale non capisce, la testa non si dà pace, il corpo sfiancato dall’immobilità si lascia quasi andare.

Aprile stamattina è arrivato senza enfasi eppure, è a lui che spetterebbe annunciare la rinascita, la resurrezione cattolica, dichiarare, infine, la primavera. Quella primavera che sembrava arrivata ma che, forse, è stata raggelata anch’essa dalla paura… E ha fatto dietro front.

Oggi ho acquistato dei fiori.

Dei fiori e delle piante per la mia quarantena muta.
Non sono beni di prima necessità, lo so, ma forse invece sì: il mio animo aveva bisogno di bellezza, avevo bisogno di toccare con mano quel risvegliarsi prepotente della natura e averlo davanti agli occhi ogni giorno, per ricordarsi che deve andare avanti.

Oggi non uscirò, ma vedrò la mia primavera sul balcone.

E questi gerani che ondeggiano silenziosi mi faranno compagnia mentre ritrovo il coraggio di continuare a sperare.

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